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Il potere del linguaggio nei media: come le parole influenzano la percezione di vittime e colpevoli
Quando si parla di femminicidio e violenza di genere, linguisti, psicologi e giornalisti concordano su un punto cruciale: il linguaggio fa la differenza. Il modo in cui i media raccontano una notizia non è mai neutro. Le parole scelte plasmano la narrazione, influenzano l’opinione pubblica e spesso finiscono per distorcere la realtà, rafforzando stereotipi e pregiudizi culturali. Questo vale in particolare quando si affrontano i racconti di cronaca nera, dove la narrazione può oscillare tra empatia per le vittime e, talvolta, inconsapevole giustificazione dei carnefici.
Quando la cronaca costruisce realtà: parole che pesano
Espressioni come “raptus di follia”, “era geloso”, “lei era provocante” sembrano innocue, ma incidono profondamente sull’immaginario collettivo. Questi frame linguistici tendono a deviare l’attenzione dalla responsabilità dell’aggressore, insinuando che certi gesti siano frutto di un impulso improvviso o di una condizione emotiva “giustificabile”. In molti casi, queste espressioni distorcono i fatti: si parla di delitti premeditati e sistemici, non di scatti di rabbia incontrollata. Eppure, i media continuano a veicolare un lessico che banalizza la violenza, alimentando una cultura che nega la vera natura del fenomeno.
Vittimizzazione secondaria: quando il racconto fa male due volte
Un altro rischio, silenzioso ma devastante, è la vittimizzazione secondaria. Capita spesso che la narrazione mediatica si concentri su dettagli privati della vita della vittima: cosa indossava, con chi aveva relazioni, se avesse mai lasciato trapelare comportamenti “sospetti”. Questo approccio finisce per spostare l’attenzione dalla violenza subita alla condotta della vittima, insinuando una responsabilità che non esiste. Il danno non è solo simbolico: familiari, amici e l’intero pubblico assorbono narrazioni che legittimano il dubbio, la colpa, la disumanizzazione.
Le conseguenze di una narrazione distorta
- Rende la violenza meno inaccettabile agli occhi dell’opinione pubblica
- Attenua la colpevolezza del carnefice
- Rinforza stereotipi di genere e ruoli sessisti
- Riduce l’urgenza di un cambiamento culturale
Il frame della follia: un alibi linguistico
Attribuire un femminicidio a un “raptus” è una scorciatoia narrativa ricorrente, ma estremamente pericolosa. Questo tipo di racconto rimuove il contesto, cancella segnali pregressi e sminuisce la premeditazione che spesso accompagna questi atti. Si tratta, in molti casi, di violenze sistemiche, progressivamente più gravi, che sfociano in tragedie annunciate. Affidare la spiegazione a un evento improvviso serve solo a deresponsabilizzare. Dietro all’esplosione di violenza, c’è spesso un intero sistema culturale che la tollera, l’alimenta e la giustifica, anche attraverso le parole.
Educare lo sguardo: come diventare lettori più consapevoli
Oggi più che mai è necessario sviluppare un occhio critico nei confronti dei contenuti informativi. L’attenzione ai dettagli linguistici aiuta a riconoscere le modalità con cui la cronaca può distorcere la realtà. Domandarsi cosa viene detto, come viene detto e cosa invece viene taciuto è fondamentale per costruire una comprensione più lucida e rispettosa.
- Notare espressioni che minimizzano la colpa dell’aggressore
- Chiedersi se i dettagli riportati sulla vittima siano davvero rilevanti
- Analizzare il lessico usato: è neutro o carico di giudizi morali?
- Considerare il contesto socioculturale oltre al singolo episodio
Media e società: perché le parole sono responsabilità
Il racconto pubblico della violenza incide sulla cultura collettiva. Ogni titolo sensazionalistico, ogni virgolettato ambiguo e ogni descrizione colpevolizzante influiscono sul modo in cui la società percepisce vittime e carnefici. Il linguaggio non è mai solo una scelta stilistica: è uno strumento di potere, capace di rafforzare o scardinare pregiudizi. Un uso consapevole delle parole può contribuire a promuovere rispetto, empatia e giustizia.
Giornalismo etico: la chiave per un cambiamento reale
Un’informazione più responsabile non è solamente possibile: è necessaria. Diverse realtà nel campo della comunicazione stanno già lavorando per diffondere buone pratiche nella narrazione dei casi di violenza di genere. Il primo passo? Riconoscere il ruolo attivo che i media hanno nella costruzione del significato e scegliere con cura ogni parola.
Ecco alcune linee guida fondamentali per una narrazione rispettosa:
- Attenersi ai fatti, evitando ricostruzioni emotive o giudizi morali
- Eliminare toni giustificazionisti o eccessivamente empatici verso il colpevole
- Mantenere la dignità della vittima evitando particolari superflui o sensazionalistici
- Inquadrare il singolo caso in una prospettiva più ampia, sociale e culturale
Un cambio di passo culturale
La narrazione è un’arma potente. Scegliere le parole giuste significa scegliere da che parte stare. Ogni lettore, ogni giornalista e ogni testata ha la possibilità – e la responsabilità – di contribuire a un racconto più giusto e umano. Solo così possiamo scardinare davvero i meccanismi che perpetuano la cultura della violenza e costruire una società dove rispetto, empatia e verità non siano eccezioni, ma regole condivise.